Rappresentare ai negoziati tutti i 27. Abbassare i prezzi. Tutelarsi da possibili incidenti e dalle accuse dei no-vax. L’Europa ha scelto le priorità sbagliate?

Nei giorni scorsi tre paesi dell’Unione Europea hanno annunciato che gestiranno in autonomia alcuni aspetti dell’acquisto dei vaccini contro il coronavirus.
Lunedì, Austria e Danimarca hanno annunciato di star contrattando con Pfizer e Moderna per ottenere delle forniture più rapide di quelle comunitarie.
L’Ungheria di Viktor Orbán sta già utilizzando il vaccino russo Sputnik V e quello cinese Sinopharm, nonostante nessuno dei due sia stato ancora approvato dall’Agenzia europea del farmaco (EMA).
Ma come funziona la gestione europea degli approvvigionamenti di vaccini?
In teoria i Paesi sono tenuti a rispettare gli accordi comunitari, che affidano i negoziati con le aziende farmaceutiche alla Commissione europea.
Per evitare il rischio che i paesi più potenti dell’Unione contrattassero in privato con le aziende farmaceutiche, lasciando i più deboli privi di potere negoziale, la Commissione ha infatti offerto ai rappresentanti degli stati membri un posto nel gruppo di lavoro incaricato di contrattare le forniture vaccinali, con a capo l’italiana Sandra Gallina.
Il processo di organizzazione del tavolo di lavoro ha quindi richiesto tempo, rendendolo operativo con un certo ritardo rispetto agli USA e al Regno Unito, dove la contrattazione è stata riposta in poche mani per fare più in fretta.
Ma anche gli obiettivi negoziali che la Commissione si era data hanno complicato le cose.
In particolare, la Commissione chiedeva (e ha ottenuto) una gamma di vaccini quanto più ampia possibile, a prezzi quanto più bassi possibile e con vincoli di responsabilità per i produttori, laddove le case farmaceutiche, per ovvie ragioni, volevano il contrario.
Come mai tante precauzioni?
Il clima di insicurezza dello scorso autunno, la pressione delle frange antivacciniste, potenti in paesi come la Francia e l’Italia, e la diffidenza dell’opinone pubblica hanno portato la Commissione, nel negoziare i contratti, a pretendere che le aziende produttrici si prendessero le responsabilità di eventuali problemi legati ai vaccini.
L’esigenza di tutelarsi da possibili incidenti è stata messa in cima alla lista delle priorità, allungando ulteriormente i tempi.
La Commissione inoltre ha richiesto e ottenuto prezzi bassi e condizioni contrattuali vantaggiose, migliori di quelle di USA e UK.
Una dose di AstraZeneca costa meno di 2 dollari nell’Unione Europea contro i 4 negli Stati Uniti. Una di Pfizer lì costa 20 dollari, contro i 15 in Europa. Nel contratto è stata inserita la clausola richiedente il “massimo impegno” a consegnare in tempo le dosi vaccinali promesse.
Tutto questo è costato molto tempo, e ogni giorno di attesa in più ha avuto un costo in vite umane e decimi di PIL persi.
Certo, è risultato un esperimento senza precedenti, che ha abbattuto un’ulteriore barriera verso la completa integrazione europea.
Basti pensare al rovesciamento dell’equazione di potere che siamo abituati a considerare valida nel vecchio continente.
I paesi più grandi, ricchi ed influenti, come la Germania e la Francia, hanno assistito ad un rallentamento della loro campagna vaccinale; se avessero contrattato direttamente con le aziende farmaceutiche, come hanno fatto Regno Unito e Stati Uniti, avrebbero senza alcun dubbio ottenuto i vaccini in dosi maggiori e più rapidamente.
Al contrario, i paesi più piccoli ne hanno fortemente beneficiato, ottenendo condizioni migliori e quantità maggiori rispetto a quanto avrebbero potuto permettersi da soli. Considerando il continente nel suo insieme, l’esperimento ha avuto un esito positivo.
Ma nei singoli Stati membri il malcontento e la ricerca di alternative si stanno diffondendo a macchia d’olio.
Leader come la Cancelliera tedesca Angela Merkel o il Presidente francese Emmanuel Macron si sono dimostrati critici rispetto alla gestione europea, al netto del giudizio positivo nei confronti della solidarietà tra stati grandi e piccoli.
Il Cancelliere austriaco Sebastian Kurz ha criticato l’EMA, in un’intervista al Bild, giudicandola «troppo lenta» nell’approvazione dei vaccini.
Fonti vicine a Kurz hanno inoltre assicurato che l’Austria, come anche la Danimarca e Israele, si trovano in fase avanzata nella trattative con Pfizer e Moderna per produrre il vaccino sul proprio territorio.
La prima ministra danese Mette Frederiksen ha dichiarato che «potremmo trovarci a dover vaccinare di nuovo, magari una volta l’anno: per questo dobbiamo potenziare con forza la produzione dei vaccini».
Insomma, si sta delineando lo scenario opposto alla direzione intrapresa dalla Commissione, che peraltro ha dichiarato di non essere stata informata dei piani del governo austriaco e danese.
Non a caso, la Presidente Ursula Von der Leyen si è affrettata a ribadire che i ritardi nelle forniture si esauriranno in qualche settimana e che nei prossimi mesi i paesi europei «avranno molte più dosi di quelle che servono».
Grazie, anche, all’arrivo del vaccino di Johnson & Johnson, che verrà autorizzato verso metà marzo, permettendo la ripartenza a pieno regime della campagna vaccinale europea.
Le eccessive precauzioni della Commissione europea si sono rivelate, almeno per il momento, una scelta controproducente, ma va ricordato che da sole non spiegano la lentezza con cui stanno procedendo le vaccinazioni.
L’Italia aveva iniziato bene la campagna vaccinale e tutt’ora è seconda per somministrazioni totali, davanti a Francia, Spagna e Polonia e dietro alla sola Germania: nonostante ciò, le persone vaccinate con prima e seconda dose, in Italia, risultano appena sopra il milione e mezzo. I dati rendono evidente il gran numero di dosi consegnate ma non somministrate, sintomo di una scarsa ottimizzazione del processo logistico.
La soluzione perciò non è destituire l’Europa, ma il contrario: lavorare per un’Europa unita, che funzioni meglio, che sappia far valere la propria forza contrattuale con l’imposizione alle aziende (oggi farmaceutiche, domani chissà) del rispetto degli accordi.
Sarà fondamentale, ad esempio, la condivisione dei brevetti, per far sì che la produzione dei vaccini possa avvenire anche nei singoli Paesi, per evitare nuovi rallentamenti della campagna vaccinale.
Se torniamo con la memoria al marzo 2020, l’Europa era in un momento disastroso: in Italia le terapie intensive erano luoghi di contagio, la Germania e la Francia bloccavano l’esportazione dei materiali essenziali come le mascherine, i capi di governo europei sentivano il richiamo del marcio fascino nazionalista e il Regno Unito usciva dall’Unione dopo quattro anni di sanguinolente negoziazioni.
Da allora, in un anno, di progressi in ambito europeo se ne sono visti moltissimi. La solidarietà tra gli stati membri, fino ad allora soltanto auspicata, è diventata concreta certezza, con le misure economiche straordinarie messe in atto dalla Commissione europea in aiuto ai singoli Paesi.
La stessa Sandra Gallina, parlando al Parlamento europeo qualche settimana fa, si era mostrata ottimista: «Vorrei dire a chi ci sta costantemente confrontando con gli Stati Uniti d’America che non dovremmo avere alcun complesso. Non sono invidiosa di quello che sta facendo Biden, perché in realtà la situazione qui in Europa è, posso dire, migliore».
Ci auguriamo che i fatti le diano ragione. E ci auguriamo che il superamento di alcuni limiti storici dell’Unione sotto la spinta della pandemia costituisca un ulteriore e rilevante passo verso gli Stati Uniti d’Europa: un’Europa più reattiva, con un bilancio proprio sufficiente e indipendentemente finanziabile, che finalmente investa di più e condivida un debito comune.
La pandemia non ha smentito, anzi, ha dimostrato ancora una volta quanto la frase di Altiero Spinelli sia eternamente attuale:
«La via da percorrere non è facile, né sicura. Ma deve essere percorsa, e lo sarà!»
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