Il fallimento del referendum ha solo rimandato il momento della verità: ecologia scientifica e animalismo filosofico sono destinati a scontrarsi. L’articolo di Emanuele Pinelli su Strade

Il referendum sulla caccia non si terrà. Ben 177.000 delle 520.000 firme raccolte non erano valide, dunque la Cassazione non ha dato il via libera.
È una buona notizia?
In un certo senso sì, ma non per chi festeggia lo “scampato pericolo”. Il confronto infatti è stato solo rimandato.
La condanna della violenza contro gli animali intesi come singoli esemplari è una tendenza di lungo corso, visibile in tutte le società W.E.I.R.D. (bianche, istruite, industrializzate, ricche e democratiche, e perciò, come dice la parola, strambe), che presto o tardi sfocerà per forza in un voto dall’alto valore simbolico.
È solo questione di tempo.
È facile immaginare un comitato meglio organizzato e meno dilettantesco che tra qualche anno riesca nell’impresa di far convocare la consultazione. E a quel punto i nodi verranno al pettine.
La buona notizia, quindi, è che l’opinione pubblica non è stata strattonata dentro questo confronto all’improvviso, alla cieca e gravemente impreparata.
Abbiamo guadagnato tempo per parlare della caccia, e in generale della tutela degli ecosistemi, con più cognizione di causa.
Provo a darne un piccolo esempio.
Sarebbe facile ricorrere al solito argomento anti-proibizionista: “Se lo legalizzi lo puoi regolamentare, se invece lo vieti verrà fatto lo stesso e senza regole”. Il dibattito finirebbe lì e la caccia resterebbe legalizzata “come male minore”.
Ma una risposta così sbrigativa lascerebbe insoddisfatte due grosse categorie di persone.
La prima è quella di chi comunque si concede ancora il lusso di domandarsi cosa sia giusto e cosa sia ingiusto, nella convinzione che alcune ingiustizie troppo estreme non debbano essere permesse dalla legge nemmeno in un’ottica pannelliana di “riduzione del danno”.
La seconda è quella di chi vuole indagare fino in fondo se la caccia sia davvero solo “un male”, e se l’unica utilità che può avere sia davvero smettere di esistere.
Qui si consuma però una spaccatura decisiva.
Per pensare che sparare a un cervo o a una volpe sia un male talmente assoluto da dover essere proibito ad ogni costo, è necessario l’intervento di una credenza filosofico-religiosa personale: quella per cui gli animali sono intangibili e sacri in quanto singoli esemplari, e meritano di entrare in quanto individui nel patto sociale stretto tra gli umani, per godere della stessa protezione di cui godono questi ultimi.
Si arriva persino a parlare di diritti del singolo animale, qualcosa che in natura non esiste, dal momento che un diritto è garantito solo là dove c’è un umano che si impegna a rispettare un dovere corrispondente (“diritto alla vita” / “non uccidere”, “diritto alla proprietà” / “non rubare”, “diritto alla salute” / “cura i pazienti”…).
Era questo il sentimento sul quale ha fatto leva il comitato che ha raccolto le firme. Le eventuali dimostrazioni pratiche dell’inutilità della caccia arrivavano a valle, come appendici marginali, raggranellate in tutta fretta per difendere il vero movente di fondo: l’orrore per la violenza contro un singolo animale, da evitare sempre e comunque.
Una fede che esonda nelle prediche moralistiche contro “la violenza come divertimento” (come se poi il divertimento della caccia stesse nei brevi istanti della violenza e non piuttosto in tutto ciò che la circonda), segno ulteriore che è tutta concentrata sull’uomo, su quali azioni è sconveniente che l’uomo compia, addirittura su quali sentimenti è sconveniente che l’uomo provi.
Una fede antropocentrica, come un po’ tutto l’animalismo.
Una fede che, però, va a schiantarsi contro un’evidenza dell’ecologia scientifica: per proteggere un ecosistema si deve ragionare in termini di equilibrio fra le specie.
Se una specie cresce troppo di numero, diventa un pericolo per le altre e a volte anche per se stessa, dunque ridurre la popolazione di un certo animale in un certo territorio a volte si rende necessario.
È questa necessità ecologica che deve essere tenuta in conto dal decisore pubblico, e che, qualora entri in contrasto con la scelta filosofico-religiosa animalista di alcuni umani, deve laicamente prevalere.
Per quanto in politica sia sempre fuorviante parlare di “amore”, “odio” e altre emozioni soggettive, semplificando si può dire: a volte “amare la volpe” è in contrasto con “amare ogni volpe”, “amare il cervo” impedisce di “amare ogni cervo”.
È qui che entra in gioco il secondo gruppo di persone di cui parlavo prima, che è quello interessato a un dibattito sereno e razionale.
La domanda che lo muove, come ricorderete, è: “Ma la caccia è davvero completamente inutile?”
Una domanda che si può articolare in più domande specifiche:
- È sempre possibile ridurre una popolazione animale attraverso cattura, sterilizzazione o rimozione? O a volte può essere utile l’uccisione?
- Se può essere utile, è proprio necessario affidarla sempre a professionisti pagati? O la si può delegare in parte a dilettanti paganti?
- Scegliere sempre professionisti pagati ha costi sostenibili? Considerando, ad esempio, anche la manutenzione dei boschi e dei sentieri, che oggi i cacciatori contribuiscono a fare gratis?
- Ci sono abbastanza professionisti formati per sostituire centinaia di migliaia di cacciatori dilettanti (peraltro in calo inesorabile da anni)?
- Il costo di severi controlli sull’attività venatoria potrebbe superare i benefici di quest’ultima?
L’importante è avere sempre ben chiaro che l’obiettivo ultimo non è quello spiritualeggiante di non profanare con la violenza nessun singolo animale, ma quello laico e concreto di preservare l’equilibrio tra le specie.
In questa cornice potranno pronunciarsi senza timore anche le grandi associazioni ambientaliste e i partiti politici: gli stessi che, durante la raccolta firme subordinata all’istanza sbagliata (quella spiritualeggiante), hanno preferito mantenere un prudente silenzio.
Abbiamo ottenuto del tempo in più, contro ogni previsione.
Non sprechiamolo.
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