Proteggere il nostro mare è ancora possibile? Per noi sì. Grazie a tecnologia, concorrenza e soft power dell’Unione Europea

L’Italia non è l’Italia senza il suo mare.
Ma quel mare, il Mediterraneo, si sta trasformando sotto i nostri occhi in un’immensa discarica, dove fra trent’anni ci sarà più plastica che pesce.
Inoltre, l’acidificazione provocata dal concentrarsi di gas serra nell’atmosfera mette in pericolo non solo le forme di vita marine, ma anche migliaia di spiagge e insediamenti umani colpiti dall’erosione delle coste.
Dobbiamo lasciare che questo disastro avvenga davanti ai nostri occhi e assistere impotenti?
Niente affatto.
Le soluzioni esistono già, come al solito, ma nessuno le vuole applicare.
Soluzioni rese possibili grazie alla trasparenza, alla tecnologia e al soft power dell’Europa unita. Vediamole insieme.

Un intervento troppo a lungo rimandato.
Infatti, nonostante il pronunciamento della Cassazione e la procedura di infrazione dell’Unione europea, il governo italiano fa orecchie da mercante e continua a prorogare in automatico concessioni che hanno più di trent’anni. Con canoni che hanno più di trent’anni e criteri di tutela ambientale che hanno più di trent’anni.
Per aggirare questo blocco e aprire il mercato a nuovi attori, la via da percorrere è aumentare il numero delle spiagge attrezzate, riducendo di riflesso quello delle spiagge libere. Negli ultimi decenni queste ultime sono aumentate oltre misura, causando danni ambientali di cui nessuno sentiva il bisogno.
Noi chiediamo di rimettere subito a gara le concessioni balneari, reinvestendo il maggiore gettito ottenuto nella messa a norma delle fognature negli oltre 230 comuni non ancora in regola.
Per il nostro mare questa sarebbe una doppia vittoria.

Più di 20 chili di plastica all’anno: è quanto disperde nell’ambiente un egiziano, un albanese o un montenegrino. Il quadruplo rispetto a un greco, un croato o un francese (dati WWF).
L’adesione all’Unione europea è il vero spartiacque per la tutela del Mediterraneo: a renderlo il mare più inquinato del mondo oggi sono soprattutto i paesi extracomunitari.
Una disparità che pesa sull’economia, regalando un ulteriore vantaggio competitivo illegittimo alle loro aziende.
La tentazione di imbarcarsi in una concorrenza al ribasso sarebbe forte.
Ma la missione dell’Europa è fare l’opposto, ovvero vincolare l’accesso al suo mercato ‑il più grande al mondo- al rispetto dei suoi standard di protezione ambientale.
Tale misura potrebbe accompagnarsi a investimenti diretti nella depurazione dei grandi fiumi del Mediterraneo orientale e, in generale, nell’uso efficiente delle risorse idriche. Un tema sempre più scottante, soprattutto nell’immenso bacino del Nilo.

L’olandese Boyan Slat (classe 1994) ha creato un sistema per raccogliere la plastica della “Grande Isola di Rifiuti” che galleggia nel Pacifico. Il prototipo è costato 24 milioni. Oggi la sua società The Ocean Cleanup ne ha attivi più di venti e sta espandendo il business nella depurazione dei fiumi e nella rivendita del materiale ottenuto riciclando la plastica recuperata.
Importare questo sistema nei punti più critici del Mediterraneo (come la giuntura fra lo Jonio e l’Adriatico) è un investimento che l’Italia potrebbe permettersi anche da sola e che aumenterebbe il suo prestigio internazionale. Contribuirebbe inoltre ad alimentare l’industria del riciclo nella quale, nonostante tutto, siamo ancora campioni mondiali.

Difendere il nostro mare dai pericoli veri significa anche non inventarcene di finti.
L’eolico offshore ormai si può sviluppare senza neanche sfiorare il fondale marino e a distanze tali da ridurre al minimo l’impatto sul paesaggio.
Con 7.456 km di coste, l’Italia presenta non pochi siti adatti a questa tecnologia.
I margini non sono quelli del Regno Unito o della Danimarca, con i loro forti venti oceanici e gli impianti da più di 2GW. L’Italia, tuttavia, potrebbe compensare col solare galleggiante, una soluzione che in estremo Oriente è già una realtà, e che permette di sfruttare i benefici del sole senza aumentare il consumo di suolo.
Producendo energia pulita si rallentano il riscaldamento globale e l’acidificazione dei mari che ne deriva. Ospitare impianti offshore, entro i limiti del buonsenso e della sostenibilità economica, è un servizio che il mare fa anzitutto a se stesso.

Le prime quattro soluzioni ai problemi del nostro mare sono state già sperimentate e offrono un ritorno economico sicuro. Ma a volte bisogna osare e “pensare dieci anni più avanti”.
L’energia delle maree, dal potenziale enorme, è ancora oggetto di ricerca e dibattito.
Sappiamo che la Corea del Sud si è già dotata di un impianto che, grazie alla marea, fornisce energia pulita a mezzo milione di abitanti. Tuttavia, ogni sistema messo a punto finora ha dei limiti. Ad esempio, le turbine sui fondali risucchiano e uccidono la fauna marina, mentre le dighe sono applicabili solo negli estuari di alcuni fiumi.
Le “lagune artificiali” sono le più innocue per la fauna e hanno il merito di proteggere la costa da possibili inondazioni, ma potrebbero avere un costo estetico che i paesi mediterranei non sono disposti a pagare come quelli atlantici.
Resta il fatto che l’energia delle maree è più affidabile, specie perché a differenza del sole e del vento esse sono prevedibili al millimetro.
Noi italiani dovremmo essere in prima linea nel cercare un modo per sfruttarle senza contraccolpi estetici o biologici. Perché ogni Twh prodotto senza emettere carbonio è un atto d’amore verso il nostro mare.
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