Un bartender, una titolare e un’ecofemminista suggeriscono come correggere le più gravi storture del settore

Una riforma del settore della ristorazione è doverosa. Lo è per quanto concerne l’aspetto ambientale, ma anche quello dei diritti dei lavoratori (troppo spesso lasciati in secondo piano nel nome del profitto del locale, a danno peraltro di chi invece prova a fare tutto in regola).
Per questo abbiamo individuato sette peccati capitali da emendare, in un’ottica di sostenibilità e di eguaglianza fra tutti i lavoratori e le lavoratrici.

Il settore della ristorazione e della mixologia adotta, nella stragrande maggioranza dei casi, un sistema di retribuzione che non garantisce l’accumulo di contributi, a causa del pagamento in nero totale o parziale. Così facendo vengono meno anche altri diritti fondamentali del lavoratore quali mutua, ferie, TFR, maternità, infortunio sul lavoro.
Allo stesso tempo, il lavoro in nero falsa la concorrenza e nutre l’evasione fiscale.
Abbiamo potuto constatare quanto un’evasione fiscale prolungata negli anni possa essere invalidante per lo Stato nel momento in cui gli capita un’emergenza: durante la crisi sanitaria del Covid avrebbero fatto comodo i soldi derivanti dal pagamento regolare dei lavoratori e delle lavoratrici di un settore così grande.
Insieme al commercio all’ingrosso e al dettaglio, ai servizi alla persona e al lavoro clandestino, infatti, la ristorazione è uno dei principali responsabili del mancato gettito fiscale italiano.
Secondo i dati Istat relativi a uno studio del 2017 , l’insieme dei settori citati alimenta 211 miliardi di evasione, varrebbe a dire il 12% del PIL nazionale. A dare questo risultato è l’insieme di sotto-dichiarazione (pari al 46,1% del valore aggiunto) e lavoro irregolare (37,3%), mentre l’incidenza di altre componenti dell’economia sommersa (mance, fitti in nero, integrazione domanda-offerta) si attesta al 7,6% del valore aggiunto. In termini finanziari, la sotto-dichiarazione causa un ammanco di 97 miliardi, l’impiego di lavoro irregolare di 79 miliardi, e le componenti residuali, per quanto minoritarie, di ben 16 miliardi.
Il 41,7% del sommerso economico si concentra nei settori di Commercio all’ingrosso e al dettaglio, trasporti e magazzinaggio, attività di alloggio e infine ristorazione, dove si registra il 21,4% del valore aggiunto totale e dove la quota di lavoro irregolare è pari al 15,8%.
Sulla base di questi dati, è chiaro che gli evasori sono tra i diretti responsabili della risposta insufficiente dello stato italiano alla crisi del Covid. È nostro dovere, pertanto, combattere il lavoro nero con maggiori attività ispettive capillari effettuate dal Ministero delle Politiche del Lavoro, INPS e INAIL, vista l’efficacia rispetto ad altri provvedimenti attuati nell’ultimo ventennio .
Inoltre, come nel settore dell’agricoltura, è fondamentale la messa in regola di tutti i lavoratori stranieri attualmente irregolari, affinché possano venire garantiti a questi ultimi gli stessi diritti di un lavoratore italiano. Finché ciò non accadrà, molti lavoratori del settore continueranno a non avere un contratto regolare non solo per la poca volontà del datore di lavoro, ma soprattutto per l’impedimento causato dalla loro condizione di irregolari. Inutile aggiungere che il mercato resterà strutturalmente distorto.
(Un sindacato al quale possono appoggiarsi i lavoratori del settore al momento è la FILCAMS — Federazione Italiana dei Lavoratori del Commercio, Alberghi, Mense e Servizi).
Altrettanto importante è tutelare quelle lavoratrici e quei lavoratori che, in base alle norme vigenti, prestando lavoro in nero rischiano la reclusione.
Attualmente, per chi lavora in nero mentre percepisce l’assegno di disoccupazione, è prevista la segnalazione alla Procura della Repubblica per il reato di falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico, con il rischio di reclusione fino a un massimo di due anni. In questo caso, noi proponiamo di eliminare la pena della carcerazione, che verrà sostituita con una sanzione pecuniaria pari alla somma di denaro percepita indebitamente. Si tratterà, in altre parole, della restituzione dei soldi dell’assegno di disoccupazione percepiti nel periodo nel quale è stato attestato che il lavoratore o la lavoratrice stesse lavorando in nero.
Quanto ai lavoratori e alle lavoratrici che lavorano in nero senza percepire l’assegno di disoccupazione, attualmente è prevista la carcerazione dai sei mesi ai tre anni. Noi vogliamo rivoluzionare questo sistema, che è giustizialista più che giudiziario.
La nostra proposta è la seguente: una tempistica di tre settimane dall’inizio del rapporto di lavoro irregolare durante la quale il lavoratore potrà segnalare alle autorità competenti l’irregolarità nell’assunzione senza andare in contro a nessuna pena. Passate queste tre settimane, il lavoratore avrà altre due settimane per segnalare l’irregolarità andando incontro ad una sanzione minima di 200 (duecento) euro. Trascorse queste due settimane aggiuntive, il lavoratore potrà ancora segnalare l’irregolarità con una sanzione più elevata, pari a 600 (seicento) euro. In nessun caso sarà comunque prevista la reclusione. Questo è un passaggio fondamentale: riteniamo che lo Stato debba colpire chi lucra sullo sfruttamento del lavoratore, non il lavoratore sfruttato.

Direttamente legata al lavoro nero è l’assenza di un contratto di lavoro, a tempo determinato o indeterminato che sia: il periodo lavorativo viene scandito in modo informale, cioè ridotto a una comunicazione dei giorni di lavoro per mezzo verbale o telefonico.
Questo fattore, salvo casi eccezionali, non mette il lavoratore nelle condizioni di potersi organizzare il suo tempo.
Non dimentichiamo infatti che il settore della ristorazione si basa perlopiù sulle prenotazioni, che arrivano al locale, nella stragrande maggioranza dei casi, nei giorni immediatamente precedenti alla data interessata.
Alla luce di tutto questo, è opportuno stabilire un numero minimo di lavoratori in sala e al banco in base al numero dei coperti e all’organizzazione del locale (numero di sale, se il locale è strutturato su un solo piano o su più piani).
Allo stesso modo, è imprescindibile fissare un numero massimo di contratti a chiamata, da attivare al massimo due giorni prima della data del servizio, così da garantire la continuità lavorativa anche dei lavoratori a chiamata qualora questi ultimi dovessero rifiutare una delle chiamate.

L’ambito della ristorazione e in particolar modo della mixologia è caratterizzato da una smodata produzione di rifiuti dovuta all’impiego di materiali monouso (bicchieri, piatti, posate, tovagliette, cannucce), sostituibili con medesimi prodotti in materiali riutilizzabili.
A tale proposito, andrebbero stabiliti degli incentivi economici in forma di bonus o, in accordo coi Comuni, di sconto sulla Tari per l’acquisto di materiali lavabili, quindi riutilizzabili, dal momento che, ad oggi, sono materiali dal costo di mercato più alto della plastica usa e getta.
Come se non bastasse, in molti locali non è garantito il sistema di raccolta differenziata: i rifiuti finiscono in discarica anche quando questo sarebbe evitabile. Il ritiro dei rifiuti conferiti da ciascun locale dovrebbe essere giornaliero, affinché le realtà più virtuose possano essere premiate, in accordo con il Comune di appartenenza, con sconti sulla Tari.

Sul sito del Ministero dell’Ambiente si legge:
“Secondo la FAO, oltre un terzo del cibo prodotto al mondo va perso. Gli alimenti sono persi o sprecati lungo l’intera catena di approvvigionamento alimentare: nell’azienda agricola, durante la trasformazione e la lavorazione, nei negozi, nei ristoranti e in ambito domestico. Oltre ai relativi impatti economici e ambientali, i rifiuti alimentari presentano anche un importante aspetto sociale: si dovrebbe agevolare la donazione delle eccedenze, affinché chi ne ha maggiormente bisogno possa ricevere alimenti sicuri e idonei al consumo.”
Sarebbe quindi opportuno ridurre lo spreco alimentare da parte dei ristoranti e dei locali, applicando, a livello obbligatorio, l’invito che è stato mosso alle Regioni con la Legge anti-sprechi alimentari circa l’utilizzo del doggy bag in tutti i ristoranti idonei all’asporto, vale a dire incartare gli avanzi affinché i clienti possano portarli a casa per consumarli in un secondo momento. Ne guadagneranno l’ambiente e il cliente, che in ogni caso paga quello che gli viene servito al tavolo, non solo quello che mangia o beve.
Inoltre, in ottemperanza alla Legge anti-sprechi alimentari, puntiamo alla cooperazione obbligatoria con le reti laiche e cattoliche che si occupano di devolvere gli avanzi alimentari agli indigenti e, al contempo, all’adesione di ogni singolo locale a piattaforme come To Good To Go – delle quali al momento nessuna evidenza empirica conferma il temuto effetto “deresponsabilizzante” sui gestori.

Quello della ristorazione è un settore in cui per il genere femminile si riscontra in modo evidente una segregazione occupazionale, orizzontale e soprattutto verticale.
Con segregazione orizzontale si intende la distribuzione delle mansioni, nell’ambito delle stesse occupazioni, secondo logiche discriminatorie: ad esempio si prediligono donne per le occupazioni legate a stereotipi femminili come quello della pulizia del locale e per il lavoro di sala (possibilmente donne giovani e di bella presenza). Agli uomini (in questo caso l’età e l’aspetto fisico incidono molto meno) spettano di solito i lavori manuali, quindi il servizio al banco e i ruoli di maggior responsabilità in cucina.
Con segregazione verticale invece si intende la scarsa presenza di donne nelle posizioni apicali. Nonostante le donne siano storicamente maestre per eccellenza in cucina, quando ci si sposta dalle case ai ristoranti per loro resta poco spazio. In Italia è noto come la Legge 903/77 — D.Lgs. n.198/2006, che garantisce la parità di genere rivolgendo le offerte di lavoro a candidati ambosessi, sia, spesso e volentieri, applicata solo di facciata e quindi, di fatto, ignorata.
Si calcola che tra gli chef nel mondo solo il 4% siano donne. Gli chef infatti sono considerati veri e propri manager e direttori, ruoli storicamente riservati agli uomini e che solo da tempi relativamente brevi sono accessibili anche alle donne.
Un altro degli ostacoli, evidenziato non solo dagli uomini ma anche dalle donne, riguarda il fatto che il lavoro nella ristorazione, come molti altri lavori impegnativi, porta le donne a dover scegliere tra penalizzare la propria carriera o la propria famiglia.
Il raggiungimento della parità di genere è uno degli obiettivi più importanti nella riforma di questo settore, ma dato che dipende da una pluralità di fattori è necessario intervenire su più fronti.
Un aiuto robusto consisterebbe nel rafforzare il sistema di servizi per le famiglie: garantire un maggior numero di asili, di servizi del doposcuola anche in enti esterni agli istituti scolastici, di ludoteche con orari flessibili e un’estensione del bonus baby sitter. È importante ricordare che, in molti casi, il settore della ristorazione viene preso in considerazione da individui che puntano ad arrotondare uno stipendio di base proveniente da altre attività lavorative; si presume pertanto che le persone interessate appartengano a una fascia di reddito medio-bassa. Lo stanziamento del bonus babysitter di cui sopra deve avere la finalità di alleggerire le spese che una persona nelle condizioni sopracitate dovrà fronteggiare, a prescindere dal genere di appartenenza.
Affinché si riduca la segregazione verticale, le donne che si trovano in posizioni apicali dovrebbero attuare un programma di mentoring facendosi affiancare da giovani donne. In questo modo le “allieve” avrebbero l’esperienza e il network che gli consentirebbero di accedere al circuito della ristorazione più facilmente.
Un altro intervento necessario e parallelo è quello di sponsorizzazione. Oltre ad essere in netta minoranza, le donne che hanno avuto successo sono anche poco conosciute. Per ora lo scenario mediatico, soprattutto quello televisivo, è sempre stato tutto al maschile, andando a definire e rafforzare lo stereotipo dello chef uomo di successo. Un intervento sulla comunicazione consentirebbe di creare anche role model al femminile. In questo modo si andrebbe a lavorare sulla percezione e sui pregiudizi non solo dei datori di lavoro e dei clienti, ma anche degli investitori che con più sicurezza si interesserebbero a donne di talento.
Infine, riteniamo essenziale una revisione del congedo di paternità: ad oggi in Italia sono previsti cinque giorni obbligatori più uno facoltativo nei primi cinque mesi di vita del bambino. Noi richiediamo l’applicazione del modello islandese, secondo cui sono previsti tre mesi obbligatori per la madre, tre mesi per il padre e tre che i genitori possono spartirsi in autonomia. Questo intervento è da applicare necessariamente a tutti i settori lavorativi, non solo a quello della ristorazione, affinché sia garantita la continuità lavorativa tanto dell’uomo quanto della donna.

Il reperimento delle risorse è, per via del trasporto, un’altra fonte non trascurabile di emissioni inquinanti. Una buona pratica è quella di affidarsi sempre più a prodotti locali, in modo da ridurre le emissioni e da favorire il Made in Italy stimolando un’economia locale in grave difficoltà.

È inammissibile un pagamento fisso “a servizio”, che quindi non tenga conto delle ore giornaliere lavorate. Questa cattiva abitudine del settore della ristorazione è resa possibile proprio dal dilagare del lavoro nero e del “lavoro grigio”. Sarebbe invece giusto un pagamento orario. È chiaro che non si può pensare di remunerare con lo stesso importo un servizio di otto ore e un servizio di quattordici ore.
Per questo motivo è necessario aumentare le assunzioni, ripartendo le ore di lavoro tra più lavoratori assunti in regola, così da garantire il rispetto di un orario di lavoro consono per il singolo individuo aumentando allo stesso tempo l’occupazione nel settore.
Andrà pertanto stabilito un numero massimo di ore di lavoro non superiore alle otto, così che quando una lavoratrice o un lavoratore si tratterrà più a lungo sul posto di lavoro, lo farà per sua spontanea volontà e dietro pagamento degli straordinari.
Non molti lo sanno, ma ora come ora non è scontato nemmeno che al lavoratore venga applicato il CCNL per i dipendenti da aziende dei settori pubblici esercizi, ristorazione collettiva e commerciale e turismo, invece di contratti affini: è il caso degli agriturismi (nei quali viene normalmente applicato il contratto di lavoratori agricoli e florovivaisti) o delle spa (dove il contratto nazionale applicato è quello di estetista/parruchiere).
Ti è piaciuto l'articolo? Se vuoi contribuire scrivici.