
Più passa il tempo, più sembra una causa persa.
In questo anno e mezzo di pandemia, chiusure, coprifuochi e coperti più che dimezzati, era inevitabile che venissero a formarsi associazioni e movimenti uniti sotto la bandiera del “Fateci tornare a lavorare”.
Tra le svariate categorie che hanno animato le piazze durante la pandemia, quella che sicuramente ha fatto più rumore è quella dei ristoratori: dalla campagna #IoApro all’impegno di Ristoratori Toscana, le mobilitazioni sono state numerose e, a loro modo, efficaci, dal momento che hanno tenuto vivo il dibattito a livello tanto sociale quanto politico.
Tuttavia, come direbbe qualcuno, il covid ha fatto anche cose buone: tra queste, palesare le innumerevoli storture del settore della ristorazione, buona parte delle quali dovute al lavoro nero e alla relativa evasione fiscale.
Lavorare in nero significa non avere un regolare contratto di lavoro, quindi non godere delle tutele che ne derivano: cassa integrazione, disoccupazione, mutua, TFR, congedo parentale, 104, ferie, permessi eccetera. Inutile dire come questa condizione abbia messo in ginocchio moltissimi lavoratori del settore in tutto il periodo pandemico.
Ora che la stagione estiva è alle porte, ecco che “puntuali come mandarini a Natale” compaiono le solite polemiche dei ristoratori del “Non troviamo personale! I giovani non hanno voglia di lavorare!”, correlati da discorsi sullo spirito di sacrificio che ai loro tempi sì che c’era, mica come adesso…
Ora. Passino le proteste sui ristori, secondo molti “troppo pochi”, sebbene essi si basino sulla dichiarazione dei redditi dell’anno precedente.
Passino le parole di Pasquale Naccari, presidente di Ristoratori Toscana: “Non rompeteci i coglioni con l’evasione fiscale e fateci riaprire”.
Passino anche le parole di Zingaretti, secondo il quale quelli della ristorazione sono solo “lavoretti” (parole risalenti al suo ultimo periodo da segretario del Partito Democratico, ovvero il principale partito di “sinistra”).
Passino perfino gli attacchi personali di ristoratori e associazioni nate di loro spontanea iniziativa per rappresentare anche la mia categoria di bartender in tempi di covid.
Passi tutto questo.
Ma non passa più l’attacco ai giovani che non hanno voglia di lavorare.
Perché se un venticinquenne preferisce restarsene a casa, o magari andare all’estero, piuttosto che lavorare per te ristoratore, io due domande me le farei.
Forse 1.000 euro al mese per lavorare 6 giorni su 7 dalle 11 di mattina alle 2 del mattino dopo sono un po’ pochini.
Forse sarebbe meglio se lo stipendio non venisse dato in contanti, ma con bonifico tracciabile su un IBAN che io lavoratore ti ho scritto nel regolare contratto di lavoro che mi hai fatto firmare prima di telefonarmi e dirmi che inizio domani.
Forse, e dico forse, almeno i pasti per la brigata dovrebbero essere garantiti, senza costringere i tuoi dipendenti a fare di una cosa così ovvia (specialmente lavorando in un ristorante, sai com’è) la principale battaglia del personale.
Forse, se io barman ti faccio aumentare i ricavi del locale del 120% rispetto all’anno precedente, un premio di qualche tipo, che so, magari economico, me lo potresti dare.
Forse, e dico forse, la società è cambiata rispetto a 30 o 40 anni fa, e così la concezione del lavoro, ragion per cui lo spirito di sacrificio è ancora una virtù lodevole, ma l’accettazione dello sfruttamento non lo è più.
Ristoratori, politici, giornalisti: i giovani ci sono, ma voi li sottopagate e li svilite in nome di una gavetta sicuramente necessaria, ma ormai anacronistica se contestualizzata nel 2021 (e con la pressione fiscale del 2021).
La ristorazione va riformata da zero, specialmente in un paese come l’Italia, patria dell’enogastronomia. Le proposte ci sono, è ora di discuterle.
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