Dal lockdown al Canale di Suez, le “scelte obbligate” si stanno rivelando sempre più incompatibili con la complessità del nostro tempo

Dal satellite la scena è questa: una distesa di sabbia da un lato. Qualche macchia verde dall’altro. Nel mezzo, una lingua azzurra, stretta e dritta.
Una regolarità tipicamente antropica, interrotta da un rettangolo chiaro, di sbieco, a smentire la téchne novecentesca del “saper fare” che ha caratterizzato il poderoso recente progresso planetario.
È la Ever Given, incagliata al chilometro 151 del Canale di Suez. Al suo interno, merci di ogni tipo: giocattoli, petrolio, beni alimentari, farmaci, animali vivi.
“ Visto dall’oblò di questo aereo
il mondo sembra ben organizzato.
Dell’uomo cogli l’operato serio,
il tratto netto, duro ed ordinato.
Reticoli di campi cesellati,
di cui non percepisci mai l’arsura
e specchi d’acqua poi, come diamanti
che l’uomo ha regalato alla natura
forse per darle una struttura,
per darle una struttura…”
Acrobati, di Daniele Silvestri (2016)
La dinamica. 7.40 di martedì 23 marzo. Una tempesta di sabbia, con venti fino a 70 chilometri all’ora e il blackout dei sistemi di navigazione: una portacontainer da 244mila tonnellate s’incaglia nel punto più impervio del Canale di Suez. Commercio navale tra Oceano Indiano e Mediterraneo bloccato.
Diverse centinaia di navi in attesa.
Perdite per 9,6 miliardi di dollari al giorno.
Il prezzo del petrolio aumenta del 5%.
Le tariffe di noleggio di navi aumentano fino al 70%.
La crisi della logistica, innescata dal Covid, degenera ulteriormente: i prezzi di semiconduttori e materie prime si impennano. L’impensabile è caduto dal cielo. L’infinita remota possibilità si è realizzata. L’aorta del commercio globale si è chiusa.
Suez, ad oggi lungo 190 km, è stato inaugurato nel 1869. Era in corso la guerra franco-prussiana, in Italia ci sono Cadorna, Garibaldi e Mazzini, un anno dopo sarebbe nato Lenin e sarebbe iniziata la Seconda rivoluzione industriale.
Tagliando l’istmo di Suez, si è riuscito a collegare per la prima volta il Mar Mediterraneo con il Mar Rosso, evitando alle navi commerciali la circumnavigazione dell’Africa, che costa 400mila euro in più e mette le navi a rischio di essere attaccate dai pirati del Golfo di Guinea.
Il canale sarebbe rimasto lo stesso fino ad oggi, tranne che per un nuovo breve tratto, inaugurato nel 2015, che permette il transito del doppio delle navi al giorno, facendole incontrare nel mezzo e permettendo la percorrenza a sensi alterni.
È il passaggio obbligato per tutte le rotte commerciali marittime tra Oriente e Occidente, e viceversa. Un pertugio attraverso il quale passa il 10% degli scambi globali, il 60% delle merci cinesi per l’Europa, 80 miliardi di prodotti per e dall’Italia, il 16% delle materie prime per i colossi chimici centroeuropei.
Il canale di Suez è anche l’esempio perfetto di quel che è stato ma non potrà più essere: il Novecento. Rappresenta quello specifico modo di affrontare il mondo: il culto della permanenza, dell’immobile, che risponde al bisogno di certezze post-conflitti mondiali; che ci fa porre le domande sbagliate ai problemi e che non permette un cambio delle regole.
L’incidente di una nave in un passaggio obbligato interrompe 1/10 del commercio mondiale. Non ci sono alternative se non attendere di spostarla da lì. Come siamo arrivati a questo punto?
Contano sicuramente gli interessi geopolitici: la posizione è fortemente strategica e Suez è l’osservato speciale di diverse nazioni per molte ragioni. Rappresenta la maggiore risorsa dell’Egitto, che negli anni ha investito tantissimo nel suo sviluppo, raddoppiandone in alcuni punti la larghezza: l’obiettivo è sviluppare la Suez Economic Zone a proprio favore, aumentando gli indotti. Nel 2020, le entrate sono state di 5,6 miliardi di dollari.
Anche la Cina è molto interessata all’hub commerciale, che le permette di capitalizzare i rapporti economici con il continente africano, compiendo al contempo importanti manovre geopolitiche nei confronti di nazioni in via di sviluppo che si affacciano sul Mar Rosso.
Il terzo attore rilevante è Israele, che da diversi anni guarda Suez con interesse, desiderosa di allargare i propri interessi e la propria zona d’influenza economica. D’altronde, l’alternativa c’è, anche se molto dispendiosa in termini di tempo e risorse: circumnavigare l’Africa. Anche l’Europa, com’è scontato che sia, segue con attenzione le vicende del Canale: il passaggio risulta fondamentale per i porti degli Stati Membri più a sud, direttamente, ma anche di tutti gli altri, Germania e Francia su tutti.
Beninteso. Lungi da me affermare che no, così non va bene, non è possibile che ci si fermi così a lungo per un incidente, perché “un piano per un evento del genere avrebbe dovuto esserci”.
Nel Canale di Suez, senza che le redazioni di tutto il mondo ne parlino, gli incidenti capitano spesso. Vengono risolti in poche ore, solitamente, tranne che in questo caso.
Quel che ha reso critica la situazione della Ever Given è la modalità con cui si è incagliata: non solo nel fondo sabbioso, com’è consueto, ma anche, con il bulbo di prua, nella sabbia lungo l’argine. Per questo abbiamo visto la foto dell’escavatore che cercava di liberarla: si è infilata nella sabbia. Questa volta è andata peggio del solito.
Il Novecento, dicevamo. Da un lato è stato il Secolo Breve, reso tale dalle guerre mondiali e dalla caparbietà umana, dall’altro è anche il secolo che più degli altri si protrae nel successivo, il 21°.
Il làscito è la propria forma mentis, ormai inadatta per leggere la realtà, che dovrà essere soppiantata dalla successiva, immune ai limiti della novecentesca e più snella nell’adattamento al mondo che cambia sempre più rapidamente.
Un’intelligenza che costringe i popoli a sofferenze collettive immeritate e risparmiabili. Un’intelligenza che si basa su concetti imprescindibili e indiscutibili, poco pragmatica, che parte dai principi per trovare le soluzioni logiche, che per forza risultano impregnate dell’ideologia di partenza, e che lo vogliono subdolamente conservare e tramandare. Un’intelligenza che narra di sé di essere razionale, ma che in realtà ha letto troppo Cartesio. Cogito ergo sum, scriveva: la convinzione della superiorità della mente razionale sull’irrazionalità, sull’imprevisto, sul non prevedibile.
Ne risulta un sistema legnoso, duro, fibroso. Un’intelligenza per niente flessibile, che non si adatta alla forma del contenitore che di volta in volta si trova a riempire, ma che spinge per farci stare sé stessa, col rischio di romperlo. Ormai inadatta a gestire la realtà verso la quale abbiamo corso e nella quale siamo. L’intelligenza di chi, nella caverna di Platone, ha deciso di rimanerci, perché è sempre stato fatto così. Stanziale, la definisce il suo teorico, Alessandro Baricco.
Torniamo alla Ever Given, incagliata nel Canale di Suez. Per metà in acqua, e per metà fuori: come l’intelligenza globale in questo momento. Per metà legata alla novecentesca, e per metà proiettata verso il futuro. Sempre più consapevole dei propri limiti. Anche grazie a casi come questo.
Circumnavigare l’Africa è una alternativa, certo, ma non molto valida. In 150 anni non è mai successo che una nave si fosse bloccata così bene e così a lungo nel canale. E ora che è accaduto, l’unica soluzione per risolvere la crisi è stata insistere nelle operazioni: applicare ancora una volta l’intelligenza novecentesca al problema. Benvenga, come dicevo, questo modus operandi, al fine di tornare alla normalità. Ma siamo certi che vogliamo tornarci a quella normalità? L’intelligenza novecentesca ha permesso che facessimo passare il 10% del totale delle merci mondiali attraverso il Canale di Suez. Considerata l’instabilità del Medio Oriente e la probabile insorgenza di nuove primavere, in futuro, se dovesse esserci un conflitto che rendesse inutilizzabile il Canale, cadremmo nuovamente dalle nuvole?
Quel che cerco, e che non sono talmente superbo da pretendere di trovare in questo luogo, non è una soluzione logistica. La domanda che mi pongo è la stessa che si pone Baricco:
«Esiste un’intelligenza non novecentesca? La stiamo formando da qualche parte, in qualche scuola, in qualche azienda, in qualche centro sociale? Abbiamo ragione di pretendere che emerga in superficie nella gestione del mondo, e di pretenderlo con una rabbia pericolosa?»
Riusciremo, un giorno, a non doverci guardare negli occhi per ammettere che no, non ci sono alternative?
Che si parli di Covid, di crisi economiche e finanziarie, di problemi professionali in un’azienda o della vita di tutti i giorni.
Riusciremo a ragionare in modo di evitare che una serie di azioni, individuali o collettive che siano, ci portino al punto di dire che non c’è alternativa se non una soltanto?
Perché spesso, quella alternativa soltanto, è il peggior scenario possibile; è la sofferenza di molti per non crollare tutti; è, pensando ai lockdown, lo smettere di vivere per non morire.
Considerate le sfide che ci aspettano, nel nostro secolo abbiamo bisogno di alternative e soluzioni come dell’ossigeno.
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