Metà dei lavoratori della ristorazione non ha un contratto regolare. E nessuno strumento anti-Covid li raggiunge. Che fare?

Il 6 novembre scorso si è tenuto il food festival de Il Corriere della Sera “Cibo a regola d’arte”, durante il quale lo chef Massimo Bottura si è confrontato con il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte circa le richieste avanzate dallo chef pluripremiato per salvare il settore della ristorazione in tempi di Covid.
Le proposte, pubblicate in una lettera – che si trova qui – al Presidente del Consiglio il 26 ottobre scorso, sono:
- chiusura serale almeno alle 23:00;
- liquidità in parametro ai fatturati;
- cassa integrazione almeno fino al ristabilimento del turismo europeo;
- decontribuzione del 2021;
- abbattimento dell’i.v.a. dal 10% al 4% per il prossimo anno.
Quelle di Bottura sono richieste legittime, avanzate, evidentemente, da chi rispetta tutte le regole circa assunzioni regolari dei dipendenti, senza lavoro nero e con trasparenza fiscale.
Tuttavia, la realtà dei fatti inerente al settore della ristorazione è ben diversa: stando a una indagine di RestWorld nel 2017, più della metà dei lavoratori e delle lavoratrici del settore afferma di lavorare in nero.
Allo stato attuale delle cose, questo si traduce nella mancanza di tutele economiche per tutto il periodo di lockdown per tutti coloro i quali lavorano in queste condizioni.
Certo, il lavoro nero è strettamente collegato a una tassazione fuori dal comune che, spesso, incentiva i datori di lavoro ad assumere in nero, così da evitare il pagamento di ulteriori tasse.
Se tuttavia è vera la frase di Bottura «La politica deve rendere visibile l’invisibile», è giunto il momento di far sentire la voce di quei tantissimi lavoratori e lavoratrici, del settore della ristorazione e non solo, storicamente privi di diritti e garanzie, di fatto invisibili: la loro è una situazione che la pandemia sta portando letteralmente all’esasperazione e che le proposte di Bottura non risolverebbero.
Dalla mancanza di un regolare contratto di lavoro consegue l’impossibilità di accedere a sussidi e bonus in questo periodo di chiusura, lasciando pertanto i lavoratori e le lavoratrici senza alcuna copertura economica che non siano i loro risparmi, e spingendoli a richiedere il surreale Reddito di Cittadinanza, che da un lato si arroga il diritto di proporre un lavoro a prescindere dall’ambito di competenza lavorativa e dalla collocazione geografica del diretto interessato, e dall’altro, in alcuni casi, è stato sospeso dall’inizio della pandemia.
Per rendere l’idea, nella peggiore delle ipotesi un bartender di Milano potrebbe ritrovarsi senza sussidio e con un’offerta di lavoro da tornitore a Reggio Calabria; nella migliore delle ipotesi, percepirà un sussidio per qualche tempo, finché non troverà autonomamente un nuovo lavoro nel suo ambito.
Bisogna contestualizzare: in tempi normali sarebbe necessario lavorare a un piano efficace per combattere il lavoro nero e la conseguente evasione, ma attualmente serve innanzitutto tutelare quelle persone che non hanno nessuna tutela.
Una persona che accetta di lavorare in nero di solito ha una situazione economica tanto fragile da spingerla ad accettare di farlo pur di portare a casa qualche soldo: quella persona non è parte del problema, ma una vittima, e in quanto tale va tutelata, ora più che mai.
Occorre stanziare dei fondi ad hoc – chiamatelo “reddito universale”, “reddito d’emergenza” o “Pluto”, poco importa – per tutelare questa categoria di lavoratori e lavoratrici. In questo modo, non solo si garantirebbe un fondo di base per chi ne ha bisogno, ma si potrebbe al contempo avviare un’indagine preliminare per permettere ai lavoratori coinvolti di segnalare le attività per cui prestano lavoro in nero, senza comunque che queste vengano in alcun modo sanzionate, visto il periodo già piuttosto difficile per il settore.
Sulla base di queste segnalazioni, ad attività riaperte a pieno regime, avranno inizio le attività ispettive vere e proprie, ma solo dopo una riforma fiscale di cui la ristorazione in primis sente il bisogno da ben prima del Covid, in modo tale che i titolari siano incentivati ad assumere regolarmente, non a fomentare l’evasione fiscale pur di stare in piedi.
Un “liberi tutti” per ricominciare, letteralmente, da capo.

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