Numeri alla mano, l’Occidente non ha granché di cui doversi vergognare. Ma anche puntare il dito solo sulla Cina rischia di portarci fuori strada

È iniziata la prima vera COP dell’era Covid.
E come era prevedibile, ora che molte nazioni stanno tentando il rimbalzo economico senza aver ancora domato il contagio, i nodi sul clima stanno venendo al pettine.
Tra crisi energetica e crisi delle filiere, nessun paese orientale – inclusi alcuni dell’Oriente europeo – vuole più sentir parlare di gas serra e di impegni sul clima.
Le posizioni sembrano bruscamente arretrate a quelle di prima degli accordi di Parigi: la Cina e i paesi in via di sviluppo rinfacciano all’Occidente di essere il vero responsabile storico del riscaldamento globale, e pretendono di arrivare allo stesso livello di benessere degli occidentali prima di avviare qualunque riduzione dei gas serra.
Questa accusa trova ampie casse di risonanza anche tra le opinioni pubbliche dell’Occidente stesso, dove per molti attivisti green l’orologio sembra essersi rotto negli anni ’90.
Hanno imparato a parlare di crisi climatica quando le democrazie liberali producevano l’80% della ricchezza mondiale e gli Stati Uniti esercitavano un’egemonia senza rivali sul pianeta: logico che a quell’epoca il nemico da combattere andasse cercato in seno all’Occidente democratico.
Anche se nel frattempo la situazione è radicalmente mutata, il mainstream degli ecologisti non ne tiene il minimo conto, come un tizio che si è addormentato al cinema e al suo risveglio non si accorge che sta venendo proiettato un altro film.
Così, anche gran parte della generazione di Greta ha introiettato questa idea dell’ambientalismo come espiazione per i peccati degli occidentali.
Ma come stanno davvero le cose?
Quante delle argomentazioni che continuano a scaricare la colpa su di noi (nordamericani in testa, europei a seguire) reggono alla prova dei dati?
Esaminiamole una per una.
- L’Occidente ha emesso gas serra per molto più tempo, fin dal 1700.
È vero.
È anche vero però che fino agli anni 1970 l’ecosistema, tra foreste, suolo e oceani, era in grado di riassorbire quasi del tutto le emissioni umane (inferiori a 5 miliardi di tonnellate di CO2 e a 2 milioni di tonnellate di metano ogni anno).
Il “derby” tra Occidente e resto del mondo si può far cominciare solo mezzo secolo fa.
- L’Occidente ha avuto emissioni più alte fino a tempi recentissimi.
È vero, ma gli altri hanno recuperato in fretta.
Le emissioni annuali di gas serra dell’Occidente sono state superate dal resto del mondo nel 1990, dall’Asia (Russia inclusa, Giappone escluso) nel 2005 e dalla sola Cina nel 2018.

Nel 1990 il carbonio già accumulato nell’atmosfera si aggirava sulle 50 Gton, pressoché tutte attribuibili a paesi occidentali: per “pareggiarle” è stato più che sufficiente il differenziale tra resto del mondo e Occidente negli ultimi trent’anni.
Meno scontato è il confronto con l’Asia.
Nel 2005 il carbonio già accumulato nell’atmosfera si aggirava sulle 100 Gton di cui circa 75 attribuibili ai paesi occidentali. Considerando una media di 3 Gton annuali che l’Asia deposita in atmosfera in più rispetto all’Occidente (al momento sono 4), i conti saranno pareggiati alla fine di questo decennio.
Non parliamo poi del confronto con la Cina da sola. Dovremo infatti aspettare la metà del secolo per vedere più carbonio depositato in atmosfera dalla Cina di quanto ne avranno depositato fino a quel momento Nordamerica ed Europa messi insieme.
I governanti di quelle latitudini quindi sembrano avere qualche freccia al loro arco per intimare agli occidentali di farsi i fatti propri almeno fino al 2030.
Ma non è così semplice.
Se confrontiamo le tecnologie che erano disponibili quando l’Occidente ha emesso le sue tonnellate di carbonio con quelle disponibili ora che l’Asia emette le proprie, sembra di vivere su due pianeti diversi.
Certo, ai fini del riscaldamento globale un grammo di carbonio europeo del 1970 vale quanto un grammo di carbonio cinese del 2021. Ma siamo sicuri che anche sul piano “morale” debbano avere lo stesso valore?
Questa domanda ci porta dritti alla terza accusa:
- L’Occidente inquina di più per ogni singolo abitante.
Il dato delle emissioni pro capite (cioè diviso per il numero degli abitanti) viene spesso invocato dai fustigatori dell’Occidente, a partire dalla propaganda di regime cinese.
La tesi è: “Se ogni abitante emette più gas serra, allora è più benestante. Pretendere che noi riduciamo le emissioni significa costringerci a restare più poveri”.
L’accusa colpisce soprattutto i nordamericani, visto che gli europei (persino i tedeschi) hanno già emissioni pro capite simili ai cinesi. Ma basta rilanciarla dall’India invece che dalla Cina per farla valere anche contro gli europei.
Eppure esiste un indicatore che è concepito apposta per misurare le emissioni in rapporto alla ricchezza: si chiama intensità carbonica. Semplificando: quanti gas serra emetti per ogni dollaro che ti metti in tasca?
La risposta è sorprendente. La più alta intensità carbonica al mondo ce l’ha il Venezuela, un paese in crisi umanitaria nera, dove il salario di un mese non basta a comprare un chilo di carne.
Seguono nazioni come Russia, Iran, Arabia Saudita e Sudafrica. Colpisce il confronto tra Cina e Taiwan (entrambe tra i paesi messi peggio): hanno più o meno la stessa intensità carbonica, ma il reddito medio di un taiwanese è più del doppio di quello di un cinese. Anche la Germania delle industrie pesanti ha un’intensità carbonica inferiore all’Italia delle PMI (entrambe tra i paesi messi meglio).
Dunque la correlazione tra gas serra e ricchezza non è affatto scontata.
Dipende da mille fattori, che vanno dalla disponibilità di tecnologia alla gestione dell’acqua.
- L’Occidente emette meno gas serra perché ha delocalizzato le sue industrie in Asia.
Quest’ultimo argomento ha molto successo tra gli attivisti nostrani, felici di poter dare una patina di francescano anti-consumismo ai loro discorsi.
L’accusa è quella di aver spostato le fabbriche energivore in Asia, per poi consumarne i prodotti in Occidente: ne conseguirebbe che gran parte delle emissioni asiatiche sono emissioni occidentali “per procura”.
I numeri però ridimensionano molto questa tesi.
Se anche per assurdo tutto il risparmio occidentale di CO2 dal 1990 a oggi fosse dovuto alle delocalizzazioni in Asia (e non lo è: in Italia ad esempio il calo delle emissioni legato al settore industriale è stato di 75Mton su 170 rispetto al picco del 2007, e non certo tutti per le delocalizzazioni) ciò spiegherebbe appena un decimo dell’impennata delle emissioni asiatiche.
Inoltre, è probabile che se quelle fabbriche tornassero da noi ne beneficerebbe anche il clima, per via dei severi standard comunitari europei (e in misura minore di quelli federali americani) sulla produzione industriale.
Non a caso la Commissione Europea sta valutando di introdurre un meccanismo di “aggiustamento alla frontiera” del prezzo delle merci extracomunitarie, nella speranza di azzerare il vantaggio competitivo di cui godono grazie al lassismo sulle emissioni.
Nel momento in cui entrasse in vigore, ci faremmo un’idea concreta di quanto sono costate al clima le delocalizzazioni e di quanto bene gli farebbe un riaccorciamento delle filiere dall’Asia all’Europa.
Non è una coincidenza se quest’ultimo argomento, quello delle emissioni “per procura”, sia l’unico che i governi della Cina e dei paesi emergenti si guardano bene dal citare.
Conclusioni
L’Occidente non deve più stare sul banco degli imputati, ma non è ancora nella posizione di salire su quello del giudice per processare un altro colpevole (nemmeno la Cina).
Non dobbiamo vergognarci del nostro passato di primi popoli industrializzati e ricchi, perché il nostro contributo ai gas serra effettivamente rimasti in atmosfera è più modesto di quanto si creda.
Non dobbiamo neanche vergognarci della nostra ricchezza attuale, perché la sfida ormai è proprio quella di scoprire strategie per produrre valore a basse emissioni. I chili di CO2 non si scambiano in banca con chili di monete. Un tedesco inquina quanto un cinese, ma con sei volte il suo reddito.
La crisi climatica avrà una soluzione non violenta solo se l’alternativa tra inquinamento e povertà diventerà meno secca che in passato.
In questo noi siamo gli apripista, e a questo ci dobbiamo dedicare.
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